Dentro la foto: Le voci di Smith-e-Carlos

di Simone Scaffidi – da Giap!

Mexico ’68, XIX edizione dei Giochi Olimpici. Gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos salgono sul podio della gara dei 200 metri piani. Record del mondo e medaglia d’oro per Smith. Terzo posto e bronzo per Carlos. Gesti da protocollo, sorrisi, strette di mano.. un copione che sembra già scritto, ma poi accade qualcosa di simile a un cortocircuito. Sono le 20.41 del 16 ottobre 1968 e l’inno degli Stati Uniti d’America risuona nell”Estadio Olímpico Universitario di Città del Messico. Tommie e John alzano il pugno guantato di nero al cielo. Non hanno scarpe ma calzini neri ai piedi. Smith ha gli occhi chiusi. Carlos una collana di pietre colorate sul petto. Shoot!

La Nikon di John Dominis ferma il tempo, immortala l’istante, consegna alla Storia dello sport una delle sue immagini più celebri. Non serve gridare. Fare discorsi. Sono i corpi a parlare. Il linguaggio della protesta è fatto di carne, la stessa degli studenti messicani massacrati in Piazza delle Tre Culture appena 14 giorni prima di quella gara, la stessa dei corpi crivellati di Malcom X, Martin Luther King e delle migliaia di neri americani uccisi dall’odio razziale e dalle forze dell’ordine. È sufficiente un istante e i corpi di Smith-e-Carlos sgretolano il conforme, bucano l’indifferenza, ribaltano l’immaginario dominante. I migliori cavalli da corsa a stelle strisce si trasformano in moltitudine nera e manifestano in mondovisione l’orgoglio di un popolo.

Lorenzo Iervolino, nel libro Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria (66th2nd, 2016), racconta cosa c’è dentro a quella celebre foto, rilanciando al lettore le parole di Carlos: «Mostrano sempre l’immagine, ma non raccontano mai la storia». Non è raro che la riproduzione seriale di una foto iconica, la sua sovraesposizione e mercificazione, favorisca letture estetizzanti con una conseguente perdita di storie e significati. In queste pagine l’autore prova a restituire la densità di significati racchiusi in quello scatto. Iervolino scava, si documenta a fondo in prima persona, viaggia, incontra i protagonisti della storia che vuole raccontare, legge i loro libri ma soprattutto ascolta. Ascolta le loro voci e quelle dei loro compagni di lotta.

Come ci sono arrivati Tommie e John su quel podio? Perché proprio in quella maniera e non in un’altra? Bisogna entrare nella foto, riavvolgere il nastro – rec stop – Harlem, le campagne del Sud, l’adolescenza di Tommie e John – ffwd stop – Tommie e John con il professore di sociologia Harry Edwards si coinvolgono nel Progetto Olimpico per i Diritti Umani – zoom – Harry Edwards, i suoi scritti, la passione che gli esce dagli occhi – ffwd stop – Tommie e John espulsi dalla squadra statunitense, le minacce di morte e l’ostracismo del mondo dello sport – rec stop – la foto – ffwd stop Alfonso de Alba, messicano-americano curiosamente nato proprio il 16 ottobre del 1968, si batte alla San José State University, l’università che ha fatto incontrare Tommie e John, per far erigere una statua in onore del gesto di Città del Messico. È il ritmo di un autore che sa gestire il fiato e mantenere la qualità della falcata. Controllo della pista, flashback, sguardi laterali, una buona dose d’emozione e tanto mantenimento, necessario a garantire l’efficacia della corsa.

Tommie e John nell’ottobre 1968 sono gli uomini più veloci del pianeta. Gli unici esseri umani ad aver infranto il muro dei 20 secondi nei 200 metri piani. Eppure, sono molto di più. Sono ragazzi neri di 23 e 24 anni cresciuti negli Stati Uniti fra gli anni ’50 e gli anni ’60. Abbattere muri è per loro un esercizio quotidiano di dignità che dura più di una vita. Perché la Storia non fa sconti e alla propria di vita ci sono da sommare quelle dei nonni schiavi, dei genitori sfruttati e dei figli appena venuti al mondo. Smith è certo che una volta salito sul podio di Città del Messico gli spareranno.
Dalle gradinate, gli spareranno. Che quella vita non basta, e gliela toglieranno. Se sei un nero americano. Se vuoi respirare. Se vuoi spezzare le catene dell’oppressione e della discriminazione sai bene che la tua vita è sul piatto. Te la possono mangiare da un momento all’altro, per strada o su un podio, per odio o consuetudine. Shoot!

Ma Smith non cade a terra. E nemmeno John. E dopo quasi 50 anni da quel gesto, Iervolino incontra dal vivo e in letteratura quei due settantenni che hanno scritto un pezzo di storia dello sport e della dignità umana. Eppure nel libro l’autore non ostenta mai questo incontro, anzi lo nasconde tra le pieghe della narrazione. Sa bene che la storia e il punto di vista dei suoi protagonisti è molto più importante dell’ego di chi la scrive. È un punto fondamentale dell’approccio dell’autore al racconto. Restituire la loro voce da complice non protagonista. Come quando nelle prime pagine del libro lancia un piccolo sassolino che nell’economia del testo diventerà slavina: «Avevo stabilito ormai da tempo che nel libro che stavo scrivendo sarebbero stati presenti solo i segni della storia afroamericana visibili a Smith-e-Carlos. Quei frammenti del cammino di un popolo che potevano essere filtrati dalla loro percezione soggettiva diretta».

C’è da parte dell’autore il tentativo dichiarato di assumere la prospettiva dei suoi personaggi con la consapevolezza tuttavia di non poterla cogliere del tutto, di non poter sostituire la sua voce a quella di Smith-e-Carlos, a quella dei neri americani. In questo senso Lorenzo Iervolino sale per 288 pagine sul secondo gradino del podio di Città del Messico. Occupa lo spazio lasciato libero dall’atleta australiano Peter Norman, il quale, durante l’inaugurazione della statua dedicata al gesto di Tommie e John avvenuta nel 2005 alla San José State University, ribadì il concetto: il mio corpo non c’è, non perché io non fossi solidale con la loro lotta, ma perché ciascuno di voi possa avere l’onore di essere complice e stare al fianco di Tommie e John. L’autore, con la sua opera, tiene fede alle parole di Norman, occupa il suo posto per un po’, nella foto e nella statua, indossa la spilletta del Progetto Olimpico per i Diritti Umani donatagli negli spogliatoi dai due atleti afroamericani, e manifesta la solidarietà a quel gesto con una presenza laterale: leggera, perché mai in primo piano, e coinvolta perché mai sullo sfondo. Se volete capire cosa c’è dentro quella foto, leggete questo libro, è un’ottima opportunità per avere l’onore di correre per un po’ accanto a Tommie e John.

 

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